19 Luglio 2003


 

 

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STORIE DI MARE


LA BARCA CAPACIOTA: UN AUTENTICO GIOIELLO DEI NOSTRI MARI
Da semplice barca da pesca, a poco a poco la capaciota si trasformò in una barca potente, governabile con qualunque tempo. Un autentico gioiello, concentrato di tecnica e bellezza in una sintesi di armonia delle linee e capacità di resistenza ed affidabilità ineguagliabili...

A circa sei miglia da Mondello sorge Isola delle Femmine, importante centro turistico e di villeggiatura nonché una delle mete preferite dei surfisti locali. In altri tempi a solcare le onde del mare di Isola non c’erano surf e tavole a vela, ma caratteristiche imbarcazioni chiamate capaciote: barche ampie e leggere, solide ed eleganti, adatte alle migrazioni lontane, così chiamate dagli isolani dal nome del borgo di Capaci, che allora comprendeva anche Isola delle Femmine. Fino alla prima metà del XIX secolo il numero di queste tipiche imbarcazioni era piuttosto esiguo: il De Quatrefages
[1] nel 1845  ne contava una sola in tutto il compartimento navale di Palermo. Ma dalla seconda metà dell’800 e nei primi decenni del ‘900 vennero costruite in gran quantità. La  capaciota imbarcazione per la pesca “a tratta” delle sardine e acciughe si diffuse nei porti che vanno da Isola delle Femmine a Castellammare del Golfo, Trapani, Mazara del Vallo, Capo Passero.

La sua larghezza era un terzo della lunghezza e le parti vitali, chiglia, ordinate, dritto di prora, dritto di poppa e braccioli erano di quercia mentre il fasciame di larice e pino. Le sovrastrutture erano realizzate in pino, l’albero e l’antinna (antenna che serviva per armare una vela latina) in pitch pine ad olio di lino e i remi in faggio. La caduta poppiera della vela era molto arcuata e in un rinforzo a guaina passava il gratile, che non era fisso alla guaina, ma vi scorreva dentro, per consentire di “insaccare” maggiormente la vela, determinando una portanza maggiore per farla “fileggiare” meno durante il bordeggio. L’albero, “a calcese”, era di forma leggermente conica. La trozza dell’albero o strozza era una fune che serviva per tenere aderente l’antenna all’albero, mentre il bracciolo dell’albero, in ferro o ricavato da un ramo forcuto di ulivo e per questo detto anche furcina, era il supporto di prua che serviva a sostenere l’antenna a riposo. I levatoi o mioli (rulli salpareti), che agevolavano il recupero delle reti, erano rinforzati all’estremità con cerchi di ferro. Anche nell’estremità superiore dell’albero vi era un cerchio di ferro ed in ferro era parzialmente la barra del timone. Le paratie erano stagne e facevano corpo con le corrispondenti ordinate. Nella parte alta del dritto di poppa vi era un pensolo, che come la furcina serviva a tenere a riposo l’antenna con la vela. Le tavole del carabottino di prua, dei corridoi laterali e del carabottino di poppa non avevano una larghezza fissa. Il supporto e il relativo rullo levatoio (miolo) di poppa veniva tolto durante la navigazione e durante la pesca. Lungo le fiancate i currituri (corridoi) di pino, innestati nei falsi ponti di prua e di poppa, per mezzo degli ombrinali (fori praticati lungo le due fiancate in corrispondenza dei corridoi stessi) servivano ad espellere l’acqua entrata accidentalmente fuoribordo, o per le ondate o per il lavoro che veniva svolto, ma venivano utilizzati anche  per poggiarvi il pescato.

La barca capaciota poteva contare su un equipaggio costituito da un capo barca, tre marinai e un mozzo (picciotto). La dotazione di bordo comprendeva un ancorotto di ferro a tre o quattro marre per ancoraggi su fondi sabbiosi o fangosi; una pietra di tufo (macciara), parallelepipedo di cm. 50 x 25 x 25 del peso di circa 30 kg. stroppata (legata con un pezzo di cavo ad un anello) con un canale al centro per ancoraggi sul fondo roccioso; un barilotto di acqua dolce di circa 40 litri; due mezzi barili, dei contenitori cilindricidi di 50 cm. di diametro  alti sempre 50 cm., fatti a doghe e cerchiati per tenere il pesce; una sassola (sorta di grossa cucchiaia) e spugne per toglier l’acqua entrata nello scafo; un barattolo di sego  per ungere gli stropoli (scalmi) dei remi, la trozza dell’albero ed i parati, che servivano per tirare la barca in secco. Dentro il carabottino (vano chiuso da un solido graticolato di legno) di poppa in una scatola di zinco stagna venivano riposti conservati i documenti di bordo, gli stropoli dei remi di rispetto( remi sostitutivi in caso di rottura o danneggiamento), due fanali a petrolio ed una tanica per il petrolio di circa due litri.

Esternamente la barca capaciota aveva la carena impeciata e quindi nera, murata a fasce di giallo, di verde, di bianco col trincarino blu oltremare. Il capo di banda (bordo superiore dello scafo) era blu, il supporto del levatoio di poppa grigio, chiglia e timone bianchi sopra il galleggiamento, grigio scuro sotto il galleggiamento. Per quanto riguarda la colorazione interna: da prua fino alla prima paratia grigio perla; fra le due paratie e i banchi, grigio perla; dalla paratia poppiera fino a poppa rosso mattone. Le tavole del carabottino di prua e di quello di poppa erano calafatate e se erano di legno pregiato non erano dipinte altrimenti erano grigie. La coperta era rossa perché veniva dato il minio, un composto di piombo, che serviva per proteggere il legname così come il color ruggine verdastro del fondo della barca, cioè della parte immersa, che veniva verniciato con vernici a base di ossido di rame per proteggere il legname dall’attacco degli agenti marini.  Un cavalluccio marino o una sirena a colori vivaci ed occhi apotropaici neri con fondo bianco, esaltavano la prua.

Da semplice barca da pesca, a poco a poco la capaciota si trasformò in una barca potente, governabile con qualunque tempo. Un autentico gioiello, concentrato di tecnica e bellezza in una sintesi di armonia delle linee e capacità di resistenza ed affidabilità ineguagliabili, partorito dalle fervide menti degli antichi maestri d’ascia di Isola. I pescatori stessi intuirono le potenzialità di questa barca davvero unica e presero a perfezionarla, rinforzandone le strutture e dotandola anche di una vela latina con o senza fiocco.

Gli equipaggi delle capaciote usavano quattro categorie di "mestieri" (reti), che adoperavano in maniera appropriata nelle acque delimitate a mezzo di "sinni" (segnali), che differivano secondo la varietà dei fondali marini e la cui conoscenza si tramandava da padre in figlio. II "tramaglio" era un tipo di rete di grande lunghezza e di piccola altezza, formata da tre teli ed usata da tutte le barche, mentre le reti da "posta" per la pesca ad ami - "palamitara" (da palamito), "agugliara" (da aguglia), "uopara" (da uope) - erano usate da sei barche. La "tratta" per le alacce veniva usata dagli equipaggi che si recavano a pescare nelle acque tunisine e algerine per quaranta giorni l'anno, dai primi del mese di maggio alla terza decade del mese di giugno. II "tartanone", rete a strascico simile alla "sciabica" (arabo "shabaka"), ma di minore dimensione, era adoperata da una dozzina di barche; la "lamara" da dieci barche. Altri strumenti, invece, come le "nasse", i "palangresi" o "palangari", di solito erano usati da barche singole.

Dal 1925 al 1940, le barche per la pesca costiera appartennero tutte alla classe "capaciota", note anche come "sardare[2]" o varche i’sarde ( barche per sarde) con una lunghezza  dai venti ai trenta palmi, (dai 5,20 ai 7,80 metri) per la pesca in acque territoriali e fino a 35 palmi (9,10 metri) per la pesca in acque extraterritoriali. Quelle più piccole prevedevano due vanchi (banchi) per i rematori, mentre nelle più grandi i vanchi erano tre con un massimo di 8 rematori. Le "capaciote", in questo periodo, vennero di solito costruite a Mondello Paese, a poca distanza da Palermo, presso il cantiere della famiglia Cancelliere, alle spalle dell’antica Tonnara, in via Mondello. Si impiegavano le tradizionali essenze legnose del pino calabro, abete, gelso ed elce e Carmelo Cancelliere era in grado di realizzare una sardara di 30 palmi, interamente a mano, adoperando soltanto martello, scalpello e sega. La barca capaciota è adesso scomparsa e se c’è rimasto qualche vecchio esemplare forse è stato modificato con moderni rifacimenti delle sovrastrutture e l’installazione di un piccolo motore diesel utile ad altri scopi.

 

Alessandro Costanzo Matta


 

[1]Jean-Louis Armand de Quatrefages de Bréau (1810-1892), fu illustre docente di scienze naturali in varie Università francesi, membro dell'Accademia delle Scienze ed autore di varie opere d'interesse naturalistico e etnologico.

[2] Da sardara rete da pesca affine alla menaide